Lo strano caso del mancato decollo della previdenza complementare
Dopo la Covip anche la Corte dei Conti se ne lamenta e invoca riforme di rilancio
I numeri parlano chiaro, a poco più di cinque anni dal lancio in grande stile della previdenza complementare, gli iscritti al 30/9 /2012 sono complessivamente 5.758.759. Rispetto a dicembre 2011 fanno segnare un + 4% ma solo grazie ai Pip che crescono del 15,2 %. Circa 12/15 milioni rimangono fuori.
Di fronte alla diminuzione della pensione pubblica quella integrativa diventa una necessità per cui oltre alla Covip, l’Autorità di Vigilanza competente in materia, anche la Corte dei Conti, nell’esaminare i conti dell’Inps del 2011, facendo, diciamo così, con una leggera invasione di campo, se ne lamenta e nella sua delibera dello scorso ottobre, fa la seguente notazione “va sottoposto a riesame il modello della previdenza integrativa e complementare, che nella confermata forma privata impone iniziative di rilancio e razionalizzazione della esigua quota di iscritti e della frammentata coesistenza di numerosi Fondi”, notazione tradotta dai più come un invito al legislatore di affidare anche questo compito all’Istituto di previdenza sociale facendo piazza pulita di fondi e fondarelli. Del resto già esiste Fondoinps che è pronto alla bisogna.
Se volessimo investigare i motivi della mancanza di entusiasmo per la previdenza integrativa, bisogna partire dalla diffidenza quasi innata verso gli investimenti finanziari
che è sempre stata grande fra gli italiani. Se si esclude il periodo del boom del “Bot people”, quando cioè con rendimenti al 19% degli anni 70, tutti compravano bot, il principale investimento nostrano è stato e rimane il mattone. Non a caso l’80% dei nostri concittadini è proprietario dell’abitazione in cui vive.
Alla crescita delle iscrizioni non aiuta il cosiddetto sistema a contribuzione definita, oggi in vigore in tutto il mondo, che ha preso il posto di quello a prestazione definita. Con la prestazione definita era il Fondo pensione che doveva preoccuparsi degli investimenti. L’iscritto conosceva fin dall’inizio quando avrebbe preso di pensione complementare. Con le altalene dei mercati finanziari, che sono diventati veri e propri otto volanti, i fondi pensione non sono stati più in grado di mantenere le promesse e sono passati al sistema contributivo, trasferendo l’onere della scelta degli investimenti sul lavoratore. Con il sistema a contribuzione definita, si sa quanto di versa e si ipotizza quando si riscuoterà in termine di pensione complementare.
Perché negli altri paesi è attecchita e da noi no
Allo stato attuale la previdenza complementare ha avuto un innegabile successo nei paesi d’oltralpe e d’oltreoceano con alcune varianti, dal modello olandese a quello svedese. I paesi nei quali si è affermata con maggior vigore sono quelli anglofili, USA e Regno Unito, con punte fino all’80%. Perché a tutt’oggi stenta ancora a decollare, nonostante la convenienza e gli sforzi delle forze politiche e sindacali e governative?
Alla base, nelle pieghe dei ragionamenti degli interessati, troviamo diffidenza, conservatorismo, paura. Forse tutti questi elementi messi assieme combinati in percentuali variabili a seconda dei casi. La verità, forse più banalmente, deve essere ricercata nel fatto che in Italia il secondo pilastro c’è sempre stato ed era costituito dalla mitica liquidazione, il Trattamento di fine rapporto, un istituto che non trova equivalenti negli altri paesi. In Italia si sono sempre stati due trattamenti per il pensionato, uno consistente nella rendita pensionistica vitalizia che lo accompagna per quel che rimane della sua vita, brutalmente “la speranza di vita” sulla quale sono parametrati i coefficienti per il calcolo della pensione, il secondo, costituito in una somma una tantum, somma che il lavoratore insegue per tutta la vita perché con essa ha sempre contato di fare qualcosa di importante e che l’inadeguatezza degli stipendi non gli ha mai consentito di realizzare.
L’utilizzo del Tfr per la previdenza integrativa è stata una scelta pressocchè obbligata. Non si poteva ipotizzare un innalzamento della pressione contributiva, essendo già l’attuale 33% un record in assoluto in tutto il mondo (e infatti la Fornero pensa di diminuirla, ma questo fatto non promette bene) .
Quando nel 92 si decise di dar vita alla previdenza complementare in sostanza si scommise che la perdita media delle pensioni del 30/40%, potesse essere compensata dai frutti finanziari derivati investendo le somme del tfr che giacevano sterili nelle aziende ( in realtà esse erano somme di autofinanziamento delle stesse). In sostanza il nocciolo della previdenza complementare sta tutta qui: gli importi del Tfr, gestiti bene dovrebbero consentire di mantenere pressoché inalterati i tassi di sostituzione complessivi. Avere quindi una pensione agli stessi livelli di prima. Questo ragionamento è stato fatto quando le borse avevano indici sempre puntati in alto e la crisi dei subprime neppure pensabile: i mercati immobiliare e mobiliare andavano a gonfie vele e tutti erano traders come tutti sono allenatori di calcio. Il punto debole di questa soluzione è che si applica bene, almeno teoricamente, ai lavoratori dipendenti regolari e agli autonomi con un reddito medio-alto, ma non alle altre tipologie presenti nel mercato del lavoro. Gli atipici, gli irregolari, gli autonomi con basso reddito non hanno a disposizione neppure il tfr. Per queste figure, già destinate ad una ridotta previdenza pubblica, appare difficile se non impossibile integrarla con una previdenza privata per l’elementare mancanza di risorse economiche.
Come si reagisce di fronte alla prospettiva di una pensione bassa
Di fronte al problema della riduzione della pensione e alla necessità di ricorrere alla previdenza complementare, le reazioni dei lavoratori sono varie. I più pensano che l’allarmismo sia un pretesto per favorire le assicurazioni private, perché alla fin fine lo Stato non potrà lasciar morire di fame i propri cittadini. C’è chi continua a pensare che i contributi versati siano sufficienti per pagare le pensioni con il vecchio sistema retributivo e che la previdenza complementare è un furto puro e semplice del Tfr. Solo un parte minoritaria è convinta della ineluttabilità della situazione ed aderisce consapevolmente alla previdenza complementare. Alla formazione di queste opinioni così variegate ha contribuito anche la comunicazione confusa da parte degli stessi soggetti patrocinatori ed i termini poco chiari che vengono usati : “Assett allocation”, “Benchmark” non sono di facile comprensione. Vedremo gli auspici della Corte dei Conti e gli inviti della Covip come si tradurranno in pratica.
Camillo Linguella